domenica 12 ottobre 2008

Le donne, la maternita' e il mercato del lavoro

L’andamento demografico è legato a doppio filo alla facilità nell’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne, alla qualità e alla quantità del lavoro femminile. La difficoltà della condizione lavorativa femminile si può quindi rintracciare nella storia demografica europea: la popolazione europea rappresentava il 12.5% della popolazione mondiale nel 1965, mentre attualmente rappresenta il 7.2. Nel 2050, senza inversioni di rotta, solo il 5%. L’evidenza statistica ci dice che più alto è il tasso di occupazione e soddisfazione lavorativa femminile, maggiore il tasso di natalità. In ultima analisi non è vero che le donne in Italia non fanno più figli (1,32 figli per coppia, il valore più basso in tutta Europa) perché lavorano di più, ma sarebbe invece vero il contrario: nel nostro paese le donne farebbero più figli se lavorassero di più e meglio, cioè con maggiori garanzie. In Italia invece tra le donne occupate, una su nove esce definitivamente dal mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio.
Le donne che – comunque – hanno un impiego, sono una minoranza in Italia . Infatti il tasso di donne occupate (dati 2007) è pari al 46,7%, contro una media europea al 71,4%. Secondo una indagine Nexus del 2005, la percentuale di donne che ritengono difficilmente compatibili l’occupazione e l’allevamento dei figli nei primi anni di vita è dell’81% in Italia, mentre raggiunge il 66% in Germania , il 56% in Francia, il 46% in Spagna, e Gran Bretagna e solo il 37% in Svezia, dove il tasso di occupazione femminile è il più alto del continente .
Ragione principale di questo ritardo italiano è la mancanza di una seria politica di strutturazione dei servizi all’infanzia volti ad agevolare l’occupazione delle giovani madri: dagli asili nido all’effettività del congedo parentale, garanzia tipica solo di quei rapporti a tempo indeterminato che lasciano fuori proprio le donne in età per avere figli.
Quale ipotesi di soluzione del problema? Esistono principalmente due vie: quella “francese” e quella “scandinava”. In Francia lo Stato interviene con sussidi pecuniari consistenti: le famiglie con un figlio ricevono circa 360 euro di aiuti mensili, che diventano 675 Euro con tre figli per i primi tre anni. La Francia spende in politiche per la famiglia circa 80 miliardi Euro annui, che corrispondono al 5% del PIL, di fronte ad una media europea pari alla metà. Non a caso la Francia è il Paese europeo col più alto tasso di natalità (1,94%). I servizi si caratterizzano inoltre per la marcata flessibilità delle soluzioni proposte: dagli asili aziendali a quelli associativi, a quelli a tempo parziale, alle assistenti materne e infine alla custodia condivisa.
I paesi scandinavi puntano invece su una versione arricchita e perfezionata del “modello emiliano”: la ricchezza ed effettività dei servizi per il supporto alle madri lavoratrici, servizi che permettono alle famiglie (ed alle donne in particolare) di lavorare e contestualmente crescere figli.
In buona sostanza secondo questo secondo modello la fertilità non si alza grazie ad una serie di contributi economici diretti, bensì attraverso politiche indirette che perseguono un equilibrio sostanziale nell’impegno di padri e madri. Risultano in special modo efficaci le politiche che implementano i servizi sociali di supporto alla maternità liberando le donne dalla cura costante della prole. In Finlandia la copertura del servizi per l’infanzia tra gli 0 e i 3 anni copre il 21% della popolazione, in Norvegia il 28, in Svezia il 41 ed in Danimarca arriva al 57%. In Italia questi servizi coprono solo l’8% della popolazione.
Da questi dati discende una ulteriore considerazione relativa alla carenza strutturale italiana dei servivi per l’infanzia, di cui l’Emilia Romagna è stata per anni esempio da imitare: l’Italia ha sempre supplito alla carenza di infrastrutture pubbliche per l'infanzia grazie alla coesione familiare inter-generazionale, alla scarsa mobilità geografica dei lavoratori e alla “vicinanza dei nonni”. Oggi con la mobilità geografica dei lavoratori e l’invecchiamento della popolazione in aumento, diventa ancora più urgente la riforma del nostro modello sociale: lo stato sociale “dei nonni” va mandato in pensione. La posta in gioco è alta, ed è, in questo caso più che mai, il nostro futuro.