venerdì 26 settembre 2008

Libere professioni, merito ed equità

Come noto, l’economia della conoscenza e dei servizi è un aspetto chiave per lo sviluppo del Paese e per la competizione nella nuova scena globale. Il mondo delle professioni ne rappresenta una delle componenti più importanti, con un contributo in termini di pil intorno al 10%.
Una parte di esse sono attività che incidono su diritti fondamentali dei cittadini ed al contempo trattano beni e servizi cosiddetti “fiducia”, il cui effettivo valore non può essere pienamente valutato dal cliente e deve quindi essere controllato da un soggetto competente. È quindi condivisibile l’idea di mantenere un controllo sull’esercizio d’attività in tali settori.
Se la ragione di tali limiti e controlli è la tutela del cittadino - che consuma e che fa impresa - essi però debbono essere ridotti a quanto utile a tale fine solamente. Non devono diventare un’occasione di porre ostacoli ulteriori alla iniziativa dei singoli, al riconoscimento del merito e quindi allo sviluppo della società. Nella misura in cui tali limitazioni sono inutili alla collettività, esse sono dannose. Anche perché si traducono in restrizioni alla concorrenza e, dunque, limitano la valorizzazione del merito come leva della mobilità sociale.
Ci si deve domandare, quindi, quale sia la ragione di molte delle limitazioni oggi vigenti all’esercizio delle professioni ed, al contempo, come possano spiegarsi talune contraddizioni rispetto alla tutela dei cittadini.
Se le attività predette incidono su diritti fondamentali delle persone, ci si può domandare perché in alcuni settori sia permesso al professionista, per risparmiare duecento euro l’anno, esercitare senza una assicurazione per la responsabilità civile.

Ci si deve domandare, inoltre, per quale ragione gli illeciti deontologici dei professionisti vengano giudicati da organi composti in maniera prevalente o esclusiva da colleghi eletti dagli appartenenti al medesimo ordine. Perché non coinvolgere in tali giudizi persone competenti che potrebbero essere indicate dalle associazioni di imprenditori e consumatori?

Ci si deve domandare perché gli organismi di previdenza obbligatoria dei professionisti siano regolamentati in modo tale da offrire prestazioni pensionistiche agli anziani ma quasi nessuna assistenza ai giovani e, soprattutto, alle giovani. Come se fosse equo ed utile per la collettività che diventino professionisti soprattutto coloro che sono sostenuti dalla famiglia fino a trentacinque anni.
A tale proposito, ci si deve infine domandare anche quale interesse il cittadino abbia che il suo professionista, prima di divenire tale, come praticante abbia servito gratuitamente o quasi un anziano. Oggi il sistema permette ed anzi incentiva ciò, con l’aggravante dalle lungaggini di esami d’abilitazione che durano anche uno o due anni. Non dovrebbe essere permesso che le giovani intelligenze, negli anni in cui maggiore potrebbe essere il loro contributo innovativo per i contesti in cui operano e per la società, costino meno di una impiegato di segreteria. Non è un caso infatti che molto spesso finiscano magari a fare proprio mansioni di segretaria.
Anzi, dietro il paravento della tradizionale libertà della professione viene celata la subordinazione di molti professionisti, non solo giovani, che dei lavoratori dipendenti hanno tutto tranne le tutele (poche o molte si ritenga debbano essere). La possibilità d’inserirsi con patti chiari in contesti di grandi dimensioni risponderebbe alle esigenze dei clienti, sempre più differenziate e specialistiche, ed al contempo alla valorizzazione dei meritevoli.
Premiare l’intelligenza e l’impegno significa moltiplicarli. Il riconoscimento del merito garantisce l’equità tra gli individui.

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